lunedì 27 maggio 2013

DUE FOTO STORICHE!


































Ieri al Castello di Pandino (Cremona)si è svolto il "Pandino Fantasy Books", fiera dell'editoria fantasy e del fantastico, con la partecipazione di moltissimi guest d'eccezione.
Era presente anche lo stand di Tsunami Edizioni, praticamente l'editore del mio penultimo libro "Sub Terra, rock estremo e cultura underground in Italia, 1977 - 1998.
Per una serie di coincidenze fortunate erano presenti alla manifestazione anche Steve Sylvester (Death SS) e AC. Wild (Bulldozer) che gentilmente si sono prestati per le foto che potete vedere in questo post.
Come evidenziato dal titolo si tratta di due foto storiche!
I due musicisti si erano già incontrati nel lontano 1988,  facendosi ritrarre per un numero speciale di H/M, splendida rivista sul Metal ormai defunta, di cui potete leggere anche qui.
A distanza di oltre 20 anni il mirabile duo è ancora insieme per celebrare nuovamente il famoso numero di H/M e anche il saggio che meritatamente li ha ritratti in copertina.
Un fatto, dal mio punto di vista, davvero emozionante!


martedì 14 maggio 2013

I VIVI I MORTI E GLI ALTRI – CLAUDIO VERGNANI (GARGOYLE, 2013)



































We are the dead men 
Walk towards the church. 
We are the dead men 
Walk behind the hearse. 
We are the dead men 
laughing at the wake. 
We are the dead men 
Who will cut the cake? 

Così canta la neofolk band inglese Sol Invictus, immaginando l'esistenza dei morti come impalpabili testimoni di una sacralità che, attraverso il mistero della tomba, trova ancora un barlume di luce.
Nel romanzo “I Vivi, i Morti e gli Altri” dello scrittore emiliano Claudio Vergnani sacro e profano si mescolano nel mistero della carne che resuscita dalla tomba e ciò che rimane è solo orrore.
Perché, ed è bene precisarlo da subito, questo è il romanzo più duro e crepuscolare che Vergnani abbia mai scritto nella sua carriera. Se nella trilogia dei vampiri di Modena grottesco, ironia e sentimento si mischiavano mirabilmente creando molteplici chiavi di lettura e scenari sempre diversi, questo libro è un pugno nello stomaco in piena regola.
Un viaggio nelle regioni più ombrose dell'animo umano a contatto con l'inferno. Il mondo (il nostro mondo) è invaso dai morti viventi: grattano i sepolcri, scoperchiano le lapidi e sono quanto di peggio abbiamo mai immaginato: purulenti, decadenti e affamati. Nessun romanticismo, nessuna speranza: se sorgi dalla tomba, sei carne corrotta e come tale un abominio lontano dalla luce della redenzione.
Oprandi, il protagonista del libro, non è Vergy e non è Claudio e non è nessun altro personaggio che potremmo rintracciare nell'opera passata di Vergnani.
Oprandi è un uomo solo, disilluso, alcolizzato. Ha già sperimentato l'apocalisse della sua esistenza e testare la fine dei giorni dell'uomo lo trova in qualche modo lucido, preparato, pronto all'azione. Tutti gli altri personaggi che troverete al suo fianco nelle fitte pagine del libro, saranno solo parentesi trascurabili, incidenti di percorso, ombre che si confondono alla notte, stando attenti che non si tramutino in esseri urlanti e bavosi. “I Vivi, i Morti e gli Altri” è contraddistinto da una “classicità” che quasi commuove e esalta allo stesso tempo: ritorna l'eroe, colmo di difetti e incertezze, ma pur sempre eroe, in lotta con i mostri della sua psiche (follia, suicido, depressione) e i mostri che infestano le strade. Un “Io sono leggenda” aggiornato ai canoni del romanzo “vergnano”.
Come Robert Neville, Oprandi deve sopravvivere in qualche modo e al meglio delle sue forze: se fosse stato un vero derelitto avrebbe abbracciato la morte al primo accenno di apocalisse. Invece ha dentro di sé quell'istinto di conservazione (e una residua e forse amara speranza) di poter trovare la propria isola felice in un mare di sangue. E tenterà in ogni modo questa impresa degna di un “poema” del ventunesimo secolo. Non mancano riflessioni, citazioni e assonanze: l'autore emiliano in questo è insuperabile. L'Horror (come genere) è solo la base narrativa, la corazza da scalfire; a fondo, più a fondo, c'è l'anima dell'uomo comune (paure, difetti, manie, frustrazioni, angosce) di fronte al più grande mistero dell'umanità: la vita, la morte e tutto quello che c'è in mezzo.
Potrete divertirvi ad accompagnare Oprandi nelle sue avventure “zombesche”, ma non è un viaggio di piacere tra le pagine della fantasia: troppo banale.
Vergnani ci consegna il proprio universo interiore, fatto di durissime invettive e malinconici pensieri, spingendoci a guardaci dentro, alla ricerca della fiammella debole dell'esistenza, soffocata da internet, crisi sociale ed egoismo/edonismo. Per alcuni il risveglio avviene alla luce del sole, tra buoni sentimenti e legami duraturi. Per altri, e in tal caso per i personaggi del romanzo, la rinascita avviene di fronte a un sepolcro scrostato, ascoltando gemiti e urla disumane.
Thomas Grey meets Lucio Fulci. 
“I Vivi, i Morti e gli Altri” è l'ennesimo, decisivo tassello artistico di un autore che non si accontenta più dello “shock orrorifico” per catturare il suo lettore.
Da oggi pretende un coinvolgimento puro, viscerale, autentico.

domenica 12 maggio 2013

LA CASA - FEDE ALVAREZ (REMAKE, 2013)


































Approfittando della Festa del Cinema (tutti i film a 3 euro, 3D a 5 euro), mi sono gustato alle quattro del pomeriggio, in un cinema praticamente (e meravigliosamente) deserto (io, un signore distinto e due coppie in religioso silenzio), il remake(?) di “Evil Dead” di Sam Raimi.
Partiamo da lontano: ultimamente sembra che il cinema americano di genere abbia riscoperto uno dei suoi pregi essenziali, quello di turbare, scioccare e possibilmente terrorizzare l'incauto spettatore. Una pellicola come “Sinister” di Scott Derrickson, uscita sempre a Marzo di quest'anno in Italia, aveva già creato un interessante precedente.
“La Casa” di Fede Alvarez (praticamente un esordiente!) con la supervisione dell'attento Raimi, è un altro passo decisivo in tal senso. Si torna dove tutto era iniziato 30 anni prima: il cottage in mezzo alla foresta, la natura spettrale e minacciosa e cinque ragazzi pronti a misurarsi col demone evocato dal Necronomincon (Parolina magica che nel film di Alvarez sorprendentemente scompare).
Qualcosa è cambiato: non si tratta di cinque giovani spensierati (retaggio tipicamente ani '80, ripreso magistralmente in “Cabin Fever” di qualche anno fa), distratti da un weekend in campagna, prima di misurarsi con l'Orrore. Viviamo tempi duri, dove le anime più deboli sono corrotte dai vizi e dai demoni personali. Alvarez tramuta gli eroi del primo film in drogati, alienati e corrosi dai sensi di colpa e dall'egoismo personale. Lo specchio, contorto ma veritiero, di una generazione che nasconde le proprie inquietudini nell'apparenza “fashion” di giubbotti di pelle e magliette degli Mc5.
Ma al Demone del bosco queste cose poco interessano: le anime non hanno colore né sapore. Le brama dall'alba dei tempi (o dal 1981, restando nei canoni cinematografici) e per poterle avere deve prima massacrare la carne e poi annullare completamente la loro umanità.














La bellezza giovanile sfiorisce nella carne martoriata e sanguinolenta e negli arti mutilati e putrefatti, e il termine “splatter” (Antico quanto il demone di celluloide) ritorna prepotente per chi ha vissuto quella parentesi del cinema horror.
Solo un esordiente può permettersi tanto ed è la sua carta vincente!
Manca qualcosa: l'uomo feticcio, l'icona intramontabile colma di ironia e di “action” memorabile. Parliamo di Bruce Campbell a cui viene dedicato uno “strano” tributo nei titoli di coda. Troppo pericoloso misurarsi con il Mito; si rischia di essere annullati all'istante da una luce troppo forte, troppo accecante e il duo Alavarez/Raimi preferisce guardare al futuro, misurandosi con espedienti e attori diversi.
Unico feticcio rimasto: la sega elettrica! Incontrastata e fulgida protagonista di una delle scene più belle di tutto il film.
Siamo di fronte a un altro passo decisivo verso L'Horror duro e puro, lontano mille miglia da quelle saghe zuccherose e fintamente orrorifiche (Chi ha detto “La Madre”?) che sinceramente hanno rotto le balle!
A conti fatti, promosso!

P.S. A breve la recensione anche del controverso "The Lords Of Salem" di Rob Zombie.

martedì 7 maggio 2013

MOSHPIT: SPECIALE PROGRESSIVE (PART II)
















Giovedì 9 Maggio nuovissima puntata di MOSHPIT!
Continuiamo il nostro speciale dedicato al Progressive in tutte le sue forme.
Doctor Jankyll & Mister Eddie avranno l'onore e il piacere di avere in diretta telefonica la prog/power metal band romana DGM forti del nuovo album "Momentum".
Scenderemo poi a Foggia per conoscere i Bifrost progressive Death Metal band dalle sonorità tipicamente anni '90.
Infine ci addentreremo nel Black Metal progressivo e futuristico dei Progenie Terrestre Pura usciti da poco per la gloriosa Avantgarde Music
Previste le rubriche Rock Zone, Disco del mese e Extreme Zone dedicata totalmente al Black M;etal. Tantissime le anticipazioni.
Come sempre puntata da non perdere per gli amanti della musica underground e non solo.
Vi aspettiamo al solito orario (21:00) sempre su Radio Base:
www.radiobase.fm



domenica 5 maggio 2013

JEFF HANNEMANN: STAGIONI NEL SUO ABISSO


Passato lo shock per la dipartita improvvisa e drammatica del biondo chitarrista (nonché membro fondatore) degli Slayer, definiti da Anthony Noguera (storico giornalista di Metal Hammer) come “gli unici e assoluti maestri del metallo macabro e violento”, credo sia il momento di delineare la controversa e seminale figura di Jeff Hanneman cercando come sempre di andare oltre l’artista.
Henneman nasce ad Oakland, California nel 1964 e cresce a Long Beach in una famiglia formata da veterani di ben due guerre: suo padre aveva combattuto durante La Seconda Guerra Mondiale in Normandia (a quanto pare partecipò al “famoso” sbarco…), mentre due dei suoi fratelli erano reduci del Vietnam. Impossibile con un parentado del genere non affrontare gli orrori sanguinosi del passato e Jeff, ancora ragazzino, si troverà ad ascoltare a tavola tutti i giorni resoconti e memorie di quei terribili conflitti.
Ben presto verrà travolto dalla fascinazione per gli aspetti più romantici di quei racconti (armi, cimeli, libri) condividendo con gli altri fratelli un collezionismo al limite dell’ossessione che verrà poi convogliato nella musica degli Slayer..
E quando diciamo 'ossessione' siamo ben consapevoli di quello che stiamo scrivendo.
Nell’Ottobre del 1994 la rivista Rumore tenta di vederci chiaro sulle presunte manie di Hannemann pubblicando un articolo altrettanto controverso: “Rock e destra. Il caso Slayer”.
Scritta dal direttore editoriale Claudio Sorge, è una indagine (invero non sempre obiettiva) sulle presunte simpatie politiche di Hannemann & soci.


Sul banco degli imputati finisce il brano “Angel Of Death” (guarda caso musica e testi del musicista californiano):

“...Con un brano come 'Angel Of Death' le cose assumono un aspetto politicamente sinistro. Tanto intrinsecamente violento e intenso sul piano emozionale/musicale quanto ambiguo su quello dei testi, narra – secondo noi glorificandole – le gesta del macellaio di Auswitz Josef Mengele. Ribadisco questa parola: 'glorificandole'. Perché nel frattempo Araya rilascia certe assurde dichiarazioni su Pinochet, mentre Hannemann non perde occasione per sfoggiare mostrine e medaglie naziste della Seconda Guerra Mondiale”. 

Sorge esagerava? La questione è più complessa di quanto immaginiamo e alcune dichiarazioni di Hannemann gettano una luce sinistra sulle sue convinzioni personali.
Nel 2009 il chitarrista americano affermerà in una intervista su "Decibel Magazine" che suo padre era di origine tedesca, ma era stato costretto a combattere per gli Alleati, mentre il suo bisnonno aveva vissuto stabilmente in Germania. Una precisazione quantomeno sospetta se si prende in considerazione un'altra sua dichiarazione datata stavolta 1991 per la rivista “Kerrang!”.
Secondo il giornalista Jeff Chirazi, imbeccato da una domanda diretta sull'imminente Primo Conflitto nel Golfo, scosso da una risata nervosa Jeff aveva risposto:

 “Prima di morire vorrei vedere Le Terza Guerra Mondiale. Sono molto coinvolto nell'idea della guerra”. 

Tom Araya, da sempre l'ala progressista degli Slayer, più di una volta tenterà di gettare acqua sul fuoco.
Nel 1987, dopo la pubblicazione di “Reign in Blood” si affretterà a precisare su Metal Hammer che

“La gente ci ha accusato di essere dei Nazi per via di quel pezzo ('Angel Of Death' Nda.) ma non lo siamo assolutamente! Siamo un gruppo che pensa di poter scrivere a proposito di qualsiasi cosa nei propri testi, sia cose positive che cose negative. Ci capita di parlare di cose realmente accadute e in questo brano si parla di Hitler che stava conquistando l'Europa”. 

La classica “pezza” che si somma a molte altre rilasciate dal nostro nel corso degli anni forse per bilanciare l'estremismo ideologico di Hannemann e King e allo stesso tempo prendere le distanze da dichirazioni non condivise? Possibile...
Del resto nel 2006, con la pubblicazione dell'album “Christ Illusion” (con una copertina molto “esplicita”), il nostro si era quasi scusato di fronte all'opinione pubblica, annunciando la sua fede cristiana e ridimensionando testi e musiche degli Slayer.
Hannemann dal canto suo già in passato aveva proferito una frase che diceva tutto sul suo coinvolgimento umano con gli altri Slayer:

“Se non fossimo nello stesso gruppo, non girerei insieme agli altri”.

Parole che cozzano irrimediabilmente con la sua formazione culturale e musicale che ha attinto moltissimo da generi quali Punk e Hc, tanto da proporre agli altri nel 1996 quel disco di cover ('Undisputed Attitude') che fece andare su tutte le furie Kerry King, poi domato con una soluzione di compromesso (alcune cover furono scelte anche dal pelato chitarrista).
Hannemann, a differenza degli altri membri del gruppo (forse gli tiene testa solo King con la sua simbologia 'satanica' e alcune convinzioni anticristiane), è stato sempre contraddistinto da un'attitudine ombrosa: emblematici in tal senso i suoi occhiali neri e l'espressione sempre seria, a tratti minacciosa.
Non dimenticherò mai lo speciale che la defunta Tmc tv dedicò al "Gods Of Metal" del Giugno 2000 con Iron Maiden, Slayer, Slipknot e molti altri.
I nostri si presenteranno al gran completo (mancava Lombardo sostituito da Bostaph) davanti alle telecamere. King e Araya spareranno battute a ripetizione, ridendo di gran gusto. Jeff se ne starà in silenzio, braccia incrociate, pantalone mimetico e gli immancabili occhiali neri: un guerriero taciturno del metal!
Ed è questa controversa figura del metal americano che ha composto la maggior parte delle musiche e dei testi di quel “Reign in Blood”, assurto da tempo a monumento incrollabile di generi estremi quali Death, Black, Grind, e milioni di altri sottogeneri.
Nel 2011 la realtà orrorifica, prima solo decantata nei testi degli Slayer, irrompe nel quotidiano dell'Hannemann/uomo:

 “Mi stavo godendo un bagno caldo, bevendomi un paio di birre. In totale relax, ho notato che un ragno mi aveva morso sul braccio. Non ho sentito nessun dolore per la puntura, ma dopo un’ora mi sentivo veramente male, al punto da pensare subito di andare in ospedale. Mentre ci stavo andando, vedevo che la pelle del braccio stava andando in putrefazione, sentivo il braccio caldissimo e stavo male. Sono arrivato al pronto soccorso, che e per fortuna l’infermiera ha capito subito quel che mi era successo: aveva già trattato un caso simile in passato, anche se mi ha detto che sono veramente dei casi rarissimi. Mi ha detto che ancora un’ora, e probabilmente sarei morto. Incredibilmente, il dottore era un fan degli Slayer: mi ha detto che prima mi avrebbe salvato la vita, poi mi avrebbe salvato il braccio, e poi mi avrebbe salvato la carriera! Sono stato operato d’urgenza, hanno asportato i tessuti morti e quelli necrotizzati, riuscendo miracolosamente a salvare i muscoli e i tendini. Ho passato due mesi in ospedale con un enorme buco nel braccio, sotto forti antibiotici. Non potevo muovermi, ho dovuto fare fisioterapia per tornare a camminare. Mi faceva male ovunque, ed ero debolissimo. Eppure mi sentivo fortunato, perchè l’infermiera aveva subito capito cosa mi stava succedendo, e il dottore ha saputo curarmi. Ora posso anche riderci su: la fascite necrotizzante è qualcosa sulla quale avrei potuto scrivere una canzone, in passato!” 

Per la prima volta nella sua vita, era stato troppo ottimista, troppo positivo.
Dopo mesi di cure e di false promesse (i fan attendevano da tempo un suo ritorno in seno alla band) una complicazione epatica (a quanto pare collegata all'abuso di alcool e non all'avvelenamento da morso di ragno), lo ha portato alla morte a soli 49 anni.
L'ultimo tassello di una storia horror rock che sembra uscita dalla penna di Robert McCammon viene infine aggiunto.
Forse il ragazzino affascinato dalla guerra e dai suoi orrori che, diventato adulto, ha scoperto la dimensione multiforme (e altrettanto funesta) del Thrash Metal, ha guardato troppo a lungo in quell'abisso che ritroviamo anche nei suoi testi:

Close your eyes 
Look deep in your soul 
Step outside yourself 
And let your mind go 
Frozen eyes stare deep in your mind as you die  
(Seasons In Abyss, 1990). 

Alla fine l' Abisso ha reclamato la sua presenza.